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A useless telegram channel.
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Qualcuno dice che telegram "non è sicuro". Sono certo che sia così. Come il 99 per cento della roba che installiamo e usiamo tra Tablet, cellulari, pc.
La verità è che la mia vita è banale. Sono stato un uomo complesso, ma è finita. Ora la mia vita è lineare, noiosa, ripetitiva, al punto che credo che le informazioni che fornisco a chi le raccoglie servano solo ad allungare il brodo. Sono certo che molti di voi abbiano vite complicate, che meritano di essere protette. La mia armatura è la banalità delle scelte, dei miei percorsi. Forse ho un'anima segreta, che ancora ruggisce nel profondo, ma non saranno due cookie a definirla. La vera difesa che abbiamo è l'anarchia segreta che coltiviamo nel cuore. Quella voglia di sovvertire, di bruciare di abbattere che nessun cookie può tracciare
Il mio vicino sta facendo un pupazzo di neve insieme a sua moglie e ai suoi due figli piccoli. Sono uscito sul balconcino e li ho guardati. Lui ha alzato la mano per salutarmi. Io ho alzato la mia.
Non so se sia consapevole dell'unicità del momento che sta vivendo.
Io potrei diventare presidente di questo paese, ma non potrò mai più fare un pupazzo di neve con mia figlia e mia moglie.
Le grandissime ricchezze arrivano camuffate e nel silenzio della notte regalano gioie irripetibili. Abbracci a chi, tra voi, gode ancora di questa immensa gioia.
Mai come stasera, quando fuori è neve, questa casa è silenziosa, io sono stanco e domani si propone come l'ennesimo giorno inutile, abbraccio affettuosamente tutti voi. Tra il nulla e un affetto surrogato da una app, meglio l'affetto surrogato. Vedete come sto messo 😊
Grazie della vostra attenzione. Un abbraccio caro ai vostri affetti.
Sinceramente.
L.
Ho frequentato e frequento poligoni di tiro. Il tiro sportivo è un'attività che aiuta la coordinazione e la concentrazione e viene operato con regole di sicurezza molto rigide.
Provate a ricordare un incidente collegato al tiro sportivo prima di quello di ieri. Personalmente non ne ricordo. È per questo che sono molto stupito dal fatto che questo signore sia riuscito a sottrarre un'arma e a portarsela via.
Nel poligono che frequento, l'arma viene consegnata al tiratore dal direttore di tiro solo quando è in pedana. E al direttore va riconsegnata nel caso di assenza temporanea (ad esempio per andare alla toilette) o alla fine della sessione di allenamento. In nessun caso il tiratore che ha affittato un'arma sociale può spostarsi dalla pedana portando con sé l'arma, anche scarica e con l'otturatore aperto.
Quando si usano attrezzi pericolosi come le armi, la disciplina e le regole sono inderogabili. Se fosse accertato che non è stata operata la vigilanza prescritta da parte del direttore di tiro saranno inevitabili conseguenze penali.
Purtroppo, il lavoro sottopagato, i turni massacranti, la demotivazione e una generale atmosfera di lassismo e impunità che si è diffusa nel nostro paese, fanno vittime. Il rigore nell'esercizio di certe funzioni è indispensabile. E questo è, prima di tutto, un'attitudine che va valorizzata. Rispetto, comprensione e gentilezza verso chiunque fa il suo lavoro seriamente e con correttezza, anche se, a volte, ci indispettisce e ci fa "perdere tempo".
Il vostro telegram funziona bene, il canale è ancora vivo, sono io che non lo sto usando perché, ultimamente, trovo difficoltà a dire cose utili o interessanti. Sono in una fase di stanchezza e non voglio annoiare nessuno. Il canale, per chi è interessato, sarà il primo a essere informato su un eventuale nuovo sito in modo da fare una sorta di sperimentazione su contenuti e accessibilità con una platea mediamente più motivata. Grazie e un abbraccio. L.
Vista la facilità con cui Twitter sospende gli account, nel caso dovesse succedere a me scriverò qui dove rimetterci in collegamento. Sempre che interessi. Un saluto e un abbraccio a tutti.
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Care e cari follower. L'amico Salvatore mi ha avvisato che telegram stava per chiudere questo canale per inattività. In realtà, vorrei riprendere a usarlo per avere un alternativa a X e per condividere contenuti più specifici in ambito difesa e geopolitica. Per questo, rimanete sintonizzati. Vi prometto pillole brevi ma significative. Per chi vuole seguirmi anche su X la mia nuova account è @kommander61 a questo link

https://x.com/kommander61

Saluti e presto. Questa volta davvero.
Ultimamente, a volte a sproposito, si fa riferimento all'opzione di truppe occidentali in Ucraina. Prima di rappresentare un fatto, la cosa è un segnale. Le risorse difensive sono in esaurimento, sia per quanto riguarda munizioni ed equipaggiamento, che anche e soprattutto per il personale.
Non poteva essere altrimenti d'altra parte. La popolazione ucraina è un terzo di quella russa e, sicuramente, solo un'aliquota può essere destinata al combattimento visto che la macchina della nazione deve continuare ad andare avanti.
Troppo spesso ci si illude che nella guerra moderna il personale sia risorsa secondaria, ma anche se le armi sono oggi molto più efficaci e autonome, una guerra estesa come quella in Ucraina ha bisogno di effettivi in grande quantità.
Molto probabilmente, lasciando intendere fra il detto e il non detto che truppe occidentali possano intervenire in Ucraina, si cerca di far capire ai russi che non possono contare sul fattore umano come elemento decisivo della guerra.
Al momento, mi appare opzione quasi impossibile per una serie di motivi, soprattutto politici, visto che l'occidente ha una forte opposizione interna che farebbe il diavolo a quattro di fronte a una escalation di questo tipo, ma all'inizio dell'aggressione sembrava anche impossibile che si fornissero caccia all'Ucraina, cosa che però poi si è verificata. Per questo, mantenere sempre atteggiamento critico e realista, ma non escludere mentalmente opzioni che, data l'importanza dello scontro, possono avere una loro evoluzione.
Buona giornata e grazie a chi ha letto fin qui.
La teoria delle finestre rotte (link alla fine), si applica pari pari alle relazioni sociali e al rispetto delle condizioni di minoranza e fragilità.
Molti di noi covano dei pregiudizi e, spesso, non li esternano solo per paura di essere stigmatizzati. Questo avviene quando nei confronti di una causa o di un argomento vige una forte attenzione sociale e culturale.
Appena questa attenzione si allenta e si rompe la prima finestra, un po' alla volta , qualcun altro si lascia andare confortato dal fatto che lo stigma temuto non sia, in realtà, così forte come si sospettava.
Gli eventi successivi al sette ottobre hanno rotto più di una finestra nel nostro tessuto sociale. Da allora, il timore dello stigma associato all'antisemitismo e ai pregiudizi sugli ebrei, si sta indebolendo sempre più.
Parlare di Israele come stato da cancellare e degli israeliani come popolo da disperdere, oggi à sempre più facile. Così come si rinnovano i pregiudizi sugli ebrei, sui loro nasi camusi, la loro comunità chiusa, legata al danaro e al poter, a cui afferisce il controllo del mondo. Esattamente la stessa catena di fole che ha preceduto l'avvio dello sterminio sistematico del Popolo.
Certo, ora le motivazioni appaiono più nobili di quelle del nazismo perché il pregiudizio non si veste più da razzismo, ma si riferisce alla causa della liberazione del popolo palestinese. Però, questo che è una posizione civile, rispettabile e, per certi versi condivisibile, tracima sempre più spesso nell'odio specifico per una comunità che si desidera cancellare e punire per la sua tracotanza.
Ora, non voglio entrare nel merito della questione, perché è complessa e, comunque, la mia posizione è ampiamente nota. Quello che mi interessa è l'emergere di queste vigliaccherie, di questi pregiudizi puteolenti, di questa sensazione di libertà che provano le anime fragili a parlare di "ebbrei" con due "b" in televisione per argomenti stupidi come un premio cinematografico.
Ecco, è questa pochezza d'animo che mi intristisce di più. Quel fatto che quando inizi a vedere una finestra rotta, non ti viene di fare qualcosa per riparala, ma anzi, godi nel lordare ciò che ti circonda perché, in fondo, odi il mondo e vuoi vederlo marcire con la stessa velocità con cui si è perso il tuo cuore.
Grazie a chi ha letto fin qui.

teoria delle finestre rotte su wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_delle_finestre_rotte
Siamo alla vigilia di eventi che metteranno a dura prova la nostra tempra. La situazione internazionale è progressivamente degenerata e la nostra società è pesantemente infiltrata da persone che, consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente, fanno il gioco del nemico. Si tratta di un attacco prima di tutto all'egemonia dell'occidente senza considerare che questa deriva dalle capacità economiche, sociali e industriali che, molto più di quelle militari, hanno fatto dell'occidente un riferimento planetario. Segue poi un attacco valoriale. Alla libertà, al rispetto dei diritti individuali, alla multiculturalità, al laicismo, al pensiero razionale e scientifico. Tutti elementi che le dittature, le autocrazie, le teocrazie e l'integralismo considerano, a ragione, un pericolo per la stabilità dei loro regimi liberticidi, dove esiste il pensiero unico al quale tutti si devono conformare e la diversità viene puntualmente perseguita.
Abbiamo trascurato questo attacco che è in corso da anni e ora, con tutta probabilità, non ci si potrà sottrarre a un confronto diretto che potrebbe coinvolgere pesantemente le nostre vite.
In questa fase ciascuno di noi deve capire che le belle parole, le buone intenzioni e gli atti di buona volontà non sono stati sufficienti per deviare il corso degli eventi. Anzi, sono stato interpretati come segni debolezza e di acquiescenza. Per questo, prima di lasciarsi prendere dallo sconforto, bisogna chiedersi quale mondo vogliamo lasciare dietro di noi. Un mondo civile, libero, che, con le sue tante contraddizioni, consente comunque scelte e libertà oppure vogliamo cedere alla lusinga del potere centrale o del dogma religioso, che decidono cosa sia giusto, cosa indossare, chi amare e regolano le esistenze dalla culla alla tomba.
Io non ho dubbi e farò ciò che posso per evitare la violenza, ma se questo non fosse sufficiente, non mi tirerò indietro. Io voglio un mondo dove prevalga la libertà dei singoli nel rispetto di quella della collettività. È stata ed è la regola della mia vita e non sono disposto a cedere alla paura, alla violenza e alla vigliaccheria.
Alla fine si muore comunque. E, se deve succedere, che almeno abbia un senso.
Negli ultimi tempi si è incominciato a parlare di leva obbligatoria come sistema per affrontare l'attuale crisi internazionale. La mia opinione è che si tratti di uno strumento inadeguato per una serie di motivi. Il primo è sicuramente la logistica. Negli anni di abolizione della leva, caserme e immobili a servizio delle Forze Armate sono stati abbandonati, dismessi o trasferiti ad altro uso. Adesso, volendone recuperare la funzione originaria, sarebbero necessari dei lavori di adeguamento e di messa a norma e, di conseguenza, non sarebbe solo una questione di soldi che si può sempre risolvere facendo debito, ma soprattutto una questione di tempo che non può essere preso a prestito. Ci sarebbe poi il problema dell'equipaggiamento, ma questo è essenzialmente un problema di danaro e, quindi, di debito. Rimane, poi la questione dell'approvvigionamento di carri, artiglieria e armi leggere che, negli anni, sono state progressivamente dimesse vista la piega da "protezione civile" presa, ultimamente, dalle Forze Armate.
Quindi, il problema non si risolve mandando la cartolina rosa ai diciottenni. Ci vuole tempo e una quantità enorme di denaro. E a noi, in questo momento, mancano entrambi.
Senza contare che la leva, fine a se stessa, è inutile. Ci vuole un addestramento serio, con richiami annuali per l'aggiornamento, il che porta le spese a livelli inimmaginabili nell'attuale situazione di bilancio.
Se esiste una soluzione, questa passa per un cambio di mentalità. Le forze armate sono uno strumento di difesa, non dei pupazzi da mettere nelle stazioni o agli angoli delle strade per "far sentire la presenza dello stato", non dei membri semi permanenti della protezione civile da spedire in giro per  l'Italia e nel mondo per soccorrere vittime di catastrofi naturali. Per questo ci sono strutture idonee. Le forze di polizia per l'ordine pubblico e i vigili del fuoco per i soccorsi. Le forze armate devono essere specializzate per la loro funzione, trasferire parte della struttura burocratica a impiegati civili, impiegare il personale in divisa per ciò che è stato addestrato, formato e viene pagato.
E tutto questo, in coordinazione logistica con gli altri paesi europei. Faccio un solo esempio. È chiaro che a Est le forze armate degli alleati debbano essere pronte a rintuzzare un attacco terrestre, mentre qui al Sud, è il Mediterraneo che va presidiato con un'adeguata forza navale. Quindi i polacchi comprano i carri, gli italiani le navi. È solo un esempio spannometrico di quello che intendo per coordinazione logistica. Nello stesso tempo, il programma di deterrenza francese, la Force de Frappe, va integrata, potenziata e supportata dall'intera comunità europea. Questo richiede uno sforzo diplomarico non indifferente, ma alla fine produce una difesa e una deterrenza credibile, senza contare una considerevole aumento dell'efficia a parità di numero di effettivi.
Il nostro potenziale nemico, in due anni di guerra, ha mostrato tutti i suoi limiti e potenzialità. Dispone di poche armi tecnologicamente avanzate, un esercito numeroso, ma male addestrato e ha un considerevole arsenale nulceare. Va quindi affrontato a due livelli. Contrapponendogli una credibile deterrenza nucleare per azzerare la minaccia derivante dal suo arsenale e allestendo forze armate coordinate, equipaggiate, addestrate e tecnologicamente dotate. In un quadro di questo tipo, la leva obbligatoria assume un ruolo marginale e, sicuramente, di secondo piano. Per questo non merita la rilevanza che sta assumendo in questi ultimi giorni.
Il 7 ottobre e le settimane che ne sono seguite mi hanno insegnato molto. E questo nonostante la mia veneranda età, una certa esperienza e l'ispessimento della cute che ne consegue.
Ricordo che nei giorni successivi era possibile identificare alcune categorie sui social.
Quella dei poveri imbecilli felici di quello che fosse successo, nonostante che la barbarie non fosse stata solo raccontata, ma vista in diretta in tutta la sua enormità di persone massacrate, donne violentate e famiglie distrutte.
Quella degli intellettuali di area, che hanno continuato a postare selfie, saluti ad amici, copertine di libri e amenità varie, tutto pur di non essere costretti a prendere posizione pubblicamente su una vicenda che si prospettava divisiva e lesiva per parte della platea dei propri sostenitori.
Poi c'erano gli interventisti, quelli che volevano l'atomica su Gaza, lo sterminio fino all'ultimo palestinese. I guerrieri fine del mondo, perché l'offesa va lavata a qualsiasi costo.
In quei giorni ho cercato di darmi una regolata e mantenere un atteggiamento professionale, nonostante quello che mi ribollivanel cuore.
È quello che fanno i vecchi scarponi come me, che hanno imparato a tenere botta e a ragionare, soprattutto quando succedono le cose peggiori. E sono sicuro di non essere stato l'unico a cercare di rimanere lucido e pensare a una strada alternativa al disastro militare, politico e relazionale nel quale una classe politica inetta e miope ha precipitato Israele.
Quello che è successo è cronaca di questi giorni. Quelli che erano felici della strage, ora fanno le vittime. Gli intellettuali hanno tolto il freno a mano e ora sparano a zero, consapevoli di aver atteso l'onda giusta. Gli interventisti si indignano per le vittime collaterali come se le bombe nucleari che avevano invocato sotto la spinta dello sdegno, avessero avuto la magica capacità di dividere i buoni dai cattivi.
In disparte ci sono quelli che sapevano già come sarebbe andata a finire. Che all'inizio sono stati pure presi in giro, perché suggerivano di lasciare sbollire la rabbia prima di mollare cazzotti.
La verità è che non c'è soddisfazione ad avere ragione, specialmente quando ti rendi conto che, aldilà delle parole, nessuna vita ha più alcun valore e che nessuno vuole vincere davvero. Che vincere sarebbe possibile, ma richiederebbe tempo, sacrificio e fatica, ma il lavoro fa spavento e quello che non riesci a prendere subito, non ha valore.
Forse, più dell'invasione russa dell'Ucraina, la crisi in medio oriente può fungere da grande catalizzatore per le numerose questioni sospese che, attualmente, dividono il mondo.
E questo perché gli Stati Uniti vedono la guerra in Ucraina più come un fattore di logoramento per la russia che come un evento che li compromette direttamente. Diversa la situazione di Israele che, nonostante quello che si dica, funge da presidio dell'occidente in una delle zone più strategiche del mondo.
Per l'Europa, viceversa, entrambe le situazioni hanno un'importamza cruciale. La dipendenza energetica dalla regione e l'estremismo religioso che essa esporta sono cruciali, mentre la pressione della russia a est è una minaccia ormai tangibile.
Proprio per questo, il tempo della procrastinazione è finito e i cittadini dovrebbero pretendere, dalle forze politiche che li rappresentano, che questi temi siano al centro degli argomenti da dibattere in vista delle imminenti elezioni europee anche perché non si può più pretendere che gli USA si facciano carico dell'onere di difesa per l'Europa.
Quindi, si deve parlare di ruolo geopolitico dell'Europa, difesa comune e indipendenza strategica. Ogni altro argomento o dibattito è secondario in questo momento storico. Chi si sottrae a questo impegno è un politico poco lungimirante e non meriterebbe di entrare a far parte del parlamento del nostro continente.
Mi chiedo come abbiamo fatto, tutti noi, a essere antifascisti prima che venisse diffuso il discorso di Scurati. Era un antifascismo inconsapevole, ingenuo, istintivo, senza basi storiche e culturali. Per fortuna che ora abbiamo gli strumenti per giustificare quell'attitudine che esercitavamo senza esserne pienamente consapevoli.
Sono sarcastico. Da persona che combatte attivamente tutti i fascismi, non solo quello del 22 in Italia, ma anche quello di oggi in russia e quello di hamas a Gaza, per studio e convinzione personale radicata, non ho trovato nulla di nuovo e di sconvolgente nello scritto di Scurati. Mi è sembrato, giudizio mio, un pezzo di letteratura dimenticabile e molto artificioso, privo di quella passione spontanea che dovrebbe animare ogni azione di pensiero che si ribelli al totalitarismo e all'integralismo. Stupida e controproducente la censura che ne è seguita.
Discutibile anche la reazione degli intellettuali italiani. Quelli di destra schierati a fare barriera a un governo di mediocri che si regge solo sull'intelligenza e sul carisma del presidente del consiglio e quelli di sinistra, che ormai si risvegliano solo quando si tratta di giudicare angoli di inclinazione delle braccia durante parate militari e episodi come questo.
Molti si lamentano del fatto che nel nostro paese non esista più una credibile rappresentanza politica di sinistra. Tra i qualunquisti del M5S, le amebe fluttuanti del PD e la marmaglia dei rossobruni, effettivamente la scelta è impossibile. Questo, però, non è un problema politico, ma soprattutto culturale. Dove sono gli intellettuali di sinistra quando si tratta di mettere in evidenza la decadenza della struttura sociale del nostro paese? Quando curarsi diventa un privilegio di classe? Quando l'istruzione è considerato un costo invece che un investimento? Quando la qualificazione professionale della forza lavoro del paese la rende indifesa di fronte al progresso tecnologico e all'avanzare delle intelligenze artificiali? Quando nostri connazionali, assimilitai a cittadini israeliani, solo per cognome o appartenenza vengono discriminati e aggrediti?
Facile. Sono a leggere a turno lo scritto di Scurati e a misurare col goniometro l'angolo che forma il braccio di un capo plotone.
Senza una base culturale non esiste una sinistra credibile in un paese. E, di conseguenza, non esiste un partito politico che la rappresenti. Rimangono solo prodotti sullo scaffale, con l'etichetta colorata con il nome del segretario sopra. E questo è quanto.
Chi segue la mia TL da un po' sa un paio di cose che ribadisco solo per chi mi legge da poco.
Io ho molto a cuore la sicurezza e la pace in Israele. Questo per motivi personali e, solo dopo, per la mia convinzione che quel paese sia un importante presidio strategico occidentale in una regione che ha avuto, ha e avrà una grande importanza negli equilibri geopolitici mondiali. Quindi, tutto quello che scrivo è inevitabilmente caratterizzato da un bias che non posso disconoscere, soprattutto per motivi di appartenenza.
L'altra cosa è che il 7 ottobre è stata una ferita personale per me. Come uomo, come militare e come convinto nemico del terrorismo. Per settimane sono stato vittima di un feroce senso di colpa. Anche se, lucidamente, so di non essere più operativo e che avrei potuto fare ben poco per prevenire quella tragedia, il cuore di un uomo disciplinato cerca con pertinacia prima di tutto le proprie colpe e, solo poi, quelle degli altri.
Quindi, quando ancora prima che iniziasse l'operazione su Gaza e avendo già intuito la declinazione che gli sarebbe stata data, ho espresso pubblicamente delle perplessità e indicato strade alternative (chi vuole conferma, cerchi su spazioy.net e sulla mia TL Twitter di quei giorni) non l'ho fatto per scarsa convinzione o per motivi umanitari. Non parlo di pace perché non sono un pacifista e non me ne intendo, sono un stato addestrato a raggiungere obiettivi nella maniera più efficace e sicura, e quella stategia mi sembrava non puntare a raggiungere un obiettivo consolidato, piuttosto ad affermare una questione di principio sotto una pesante spinta emotiva. Emotività e questioni di principio sono elementi di grande disturbo nella pianificazione di un'operazione militare. Comunque, sono state fatte altre scelte. È inutile recriminare.
Però, se c'è qualcosa di peggio di un'operazione militare progettata per affermare questioni di principio e sotto una forte spinta emotiva, è solo un'operazione militare progettata per affermare questioni di principio e sotto una forte spinta emotiva non portata a termine.
Avendo lasciato ad hamas il pallino della comunicazione, mostrando al mondo con colpevole ritardo e solo marginalmente la mostruosità degli eventi del 7 ottobre, l'immagine internazionale di Israele è risultata compromessa su vari livelli. L'opinione pubblica occidentale è immatura, ipocritamente romantica e suscettibile a ogni forma di manipolazione. Se a questo si aggiunge l'antico sentimento di antisemitismo che aleggia in tutto il mondo, ci vorrà tempo e grande lavoro per riabilitarsi, pur dopo aver subito un torto di quella entità.
Conoscendo la mentalità dei terroristi, sono più che certo che a Rafah si sia concentrata la schiuma più torbida di quell'organizzazione.
Quindi, una volta scoperchiato il vaso di pandora, se toccasse a me decidere, io andrei fino in fondo. È vero, ci sono ancora di mezzo le vite degli ostaggi e, per me, è più semplice parlare perché quello che potevo perdere l'ho già perso, ma se esiste una reale possibilità di infliggere un colpo decisivo ad hamas, io lo darei ora che, ormai, resta poco da salvare.
Detto questo, sono più che certo che anche se si radessero al suolo cento città, non si riuscirebbe a eliminare il problema del terrorismo. Si guadagnerebbe tempo, però, per dare all'intelligence la possibilità di riabilitarsi individuando in anticipo altri focolai e alla politica per arrivare a un compromesso che consenta di aumentare la sicurezza dell'area con decisioni strutturali.
Anche se non esistono soluzioni definitive per questo problema, il tempo che si guadagna vale vite, apre nuove prospettive e allontana la prospettiva di un nuovo 7 ottobre.
Certo, non è esattamente una vittoria, ma l'esperienza insegna che la pace non si può raggiungere. Quello che si può cercare è avere solo tregue, più o meno lunghe, che sono comunque un regalo per chi avrà modo di viverle.
Ora che incombono le elezioni continentali e di fronte al quadro desolante della politica italiana che le affronta come propaggine demoscopica del gradimento dei propri leader, è il momento di fate delle considerazioni sul ruolo dell'Europa relativamente alle due grandi crisi internazionali che ci riguardano più direttamente.
Con l'Ucraina, l'azione è stata valutabile, ma abbastanza incoerente. Più attiva, per giusti motivi, la frontiera nord est dell'Unione con un paio di fughe solitarie della Francia, resistenza ungherese, che prima o poi andrà bene affrontata, qualche peso morto che ha collaborato, ma a fatica, qualche sporadico entusiasmo.
Un'azione a più velocità, quindi, ma almeno rilevabile. Anche se, in assenza degli Stati Uniti, col solo supporto della UE, gli ucraini sarebbero già stati consegnati al proprio destino.
Nulla, invece, sul fronte della crisi medio orientale. Anzi, peggio che nulla, perché si parla di qualche paese europeo, casi isolati, che pensa a un riconoscimento dello stato palestinese, al di fuori della politica estera UE, come azione individuale e non coordinata.
A qualcuno potrebbe apparire naturale preoccuparsi di una crisi geograficamente più vicina, come quella ucraina, ma si tratta di un errore di valutazione.
La russia rimane sempre una grande minaccia e, prima o poi, sarà necessario farci i conti, ma i fenomeni che si sono sviluppati come conseguenza del 7 ottobre sono molto preoccupanti. Si pensi solo al risveglio dell'aggressività iraniana, per tramite dei suoi proxies in Libano e nello Yemen, al blocco messo in opera dagli houti che sta avendo impatti importanti sul traffico commerciale, al rigurgito di antisemitismo, alla contaminazione del dibattito politico con argomenti e temi legati alle rivendicazioni palestinesi, alle proteste nelle università, fomentate da quella parte politica sfascista che lavora per il crollo dell'occidente e, infine, alla probabile ripartenza del terrorismo integralista sul suolo europeo.
In tutto questo scenario, a parte qualche contestata missione marittima per la protezione delle rotte, l'Europa è assente e, quando non è assente, è divisa. E questo è grave, perché, se il confronto con la russia è inevitabile ma, per il momento, differito nel tempo, le conseguenze della crisi mediorentale con la loro possibile declinazione terroristica, sono ormai parte delle cronache quotidiane.
In questo quadro di grande incertezza, se permangono leciti dubbi sugli esiti della guerra in Ucraina e sulla conclusione dei combattimenti a Gaza, esiste una sola certezza: se l'Europa non è in grado di gestire crisi internazionali di questa portata con coerenza e unità, non sarà in grado di sopravviverle. E, alla fine, rischia di diventare l'ennesima vittima di questi conflitti.
Se fosse in qualche modo possibile stabilire una sorta di graduatoria dell'orrore, gli eventi del 7 ottobre precederebbero in classifica di gran lunga quelli del'11 settembre.
E questo non per il numero di vittime, che un morto di terrorismo è già troppo, figuriamoci migliaia, ma per il modo con cui queste vittime sono state fatte e per le conseguenze a livello di coesione dell'occidente.
Uccidere un migliaio di persone, una a una, in modalità brutale, senza distinzione di sesso o di età, unire a questo la violenza sessuale, il sadismo di alcune esecuzioni a freddo e le centinaia di persone rapite, torturate e poi uccise in cattività, è un evento diverso dallo schiantare due grattacieli e, con questo, provocare di conseguenza migliaia di vittime. L'intenzione malevola e orribile è la stessa, mal la durata dell'atto terroristico e la sua reiterazione in giorni e giorni è a un livello di bestialità diverso.
Fatta questa distinzione, che può apparire accademica, ma prodroma a quanto segue, analizziamo ora le conseguenze. La strage del 9 11 ha visto un occidente riunirsi intorno agli Stati Uniti, dimenticando antiche rivalità e dissidi. Questo sia a livello di governi, ma anche e soprattutto tra cittadini di ogni nazione dell'occidente. E non solo. Le operazioni militari che sono succedute, che ho sempre ritenuto sbagliate nelle modalità e nelle motivazioni, hanno visto comunque la partecipazione di una coalizione internazionale coesa.
Dopo il 7 ottobre, viceversa, ancora prima che da Gaza iniziassero ad arrivare numeri che nessuno potrà mai realmente verificare e nonostante il livello di atrocità fosse più evidente, si sono presentate immediatamente delle divisioni, nelle posizioni dei governi occidentali, tutti solidali a parole, ma alcuni meno nei fatti, ma soprattutto nell'opinione pubblica, con le declinazioni che tutti oggi possiamo vedere.
La cosa evidenzia due aspetti. Il primo è che nei confronti di Israele esiste un antico pregiudizio che oggi ha trovato ottime motivazioni per rendersi più evidente. La seconda è che la frammentazione ideologica dell'occidente, unita a una sorta di detiva ideologica che preferisce ignorare l'evidenza macroscopica di alcuni fatti in nome del politicamente corretto, hanno eroso le basi di una motivazione comune e stanno spalancando le porte a un disastro la cui entità in molti non riescono nemmeno lontanamente a immaginare.
Qualche tempo fa ho scritto una nota tecnica sul taser per le forze di polizia e sul rischio di avere troppa fiducia nella sua efficacia. La nota si è rivelata tragicamente profetica quando, nelle ultime ore, in ben due casi, il taser non si è stato risolutivo e un agente di polizia a Lambrate e un egiziano a Milano ne hanno fatto le spese rimanendo gravemente feriti nell'evokuzione dello scontro.
Metto la nota qui. È un po' tecnica, ma forse può interessare a qualcuno.

Il mito dello Stopping Power
Nel mondo degli operatori di sicurezza esiste un mito. Si chiama “potere di arresto”, in inglese “stopping power”. Esso dovrebbe misurare l’efficienza di un’arma nell’arrestare l’azione violenta di un aggressore. In pratica, quale sia l’efficacia di uno strumento difensivo quando viene azionato.
Nei film, siamo tutti abituati a vedere malviventi che si accasciano dopo un solo colpo di pistola. Nella realtà, questa non è la norma. Utilizzando uno dei calibri più diffusi fra le forze di polizia (il 9×19 Parabellum), per fermare un criminale con attitudini aggressive servono, a volte, anche sette o otto colpi messi a segno, con l’aggressore che mantiene per diversi secondi la sua capacità offensiva. Se il soggetto è sotto l’azione di droghe o carico di adrenalina e se nessuno dei colpi lede un centro vitale, prima che si abbia uno stop nell’azione aggressiva, possono essere necessari anche quindici, venti colpi di pistola.
La situazione cambia in funzione dell’arma utilizzata (pistola, fucile, calibro delle cartucce), della freddezza del tiratore, del contesto operativo (distanza, all’aperto, al chiuso) e da una serie di parametri aleatori, fra cui il centrare con un colpo un organo vitale, che nessuno è in grado di controllare. Per questo, quando ho parlato di “potere di arresto”, ho usato la parola mito. Alcuni ci credono e lo cercano nei calibri più significativi (357. 44, ecc), altri nella composizione/geometria delle pallottole (fra tutte le hollow point o la munizione spezzata), altri ancora nella frequenza di tiro. Io ho imparato che l’arma con il maggiore potere di arresto è quella che, quando la usi, ti salva la pelle. E questo che sia una 22 o, semplicemente, un buon bastone, una ritirata strategica o la parola giusta detta nel momento giusto, col tono appropriato. Il resto, come tutto nella vita, è un po’ questione di esperienza e molto di fortuna.
Il Taser nelle Operazioni di Polizia
Detto questo, poiché si parla di azioni di polizia e non di operazioni militari, lo strumento utilizzato per contenere un’azione aggressiva deve rispondere a diversi requisiti: prima di tutto deve contenere i danni a chi ne viene attinto. Lo scopo della polizia è fermare un aggressore, non ucciderlo, e limitare al minimo i danni inferti. Poi deve essere pratico e facile da usare. Le forze di polizia hanno diverse ed eccellenti competenze, ma la loro preparazione al combattimento non è quella di un militare professionale. Deve poi essere robusto, di scarsa manutenzione, economico ed efficiente in termini di potere di arresto.
Non so quanti di voi sappiano come funziona un taser. Ora non voglio allungare troppo questa che sta già diventando una noiosa dissertazione, ma, molto semplicisticamente, si tratta di un dispositivo che, quando viene azionato, lancia dei piccoli ganci collegati con dei fili all’apparecchio. I ganci arpionano il corpo dell’aggressore e rilasciano una forte scarica elettrica che procura una sorta di elettroshock nel soggetto attinto. Questo dovrebbe incapacitarlo per il tempo necessario ad immobilizzarlo.
La sua introduzione tra le forze di polizia italiane ha suscitato molte discussioni, ma aldilà del dibattito, informato o meno, è qualcosa che serve? Funziona?
Qui entriamo nel campo dell’opinione personale in quanto la letteratura specifica è contraddittoria. Per quello che ho scritto prima, stabilire scientificamente il “potere di arresto” di uno strumento è, a mio parere, impossibile. Per questo, quello che leggerete è pienamente opinabile.
Se altri operatori hanno opinioni diverse dalla mia e hanno voglia di argomentarle, sarei felice di leggerle.
Secondo la mia opinione, il taser è uno strumento abbastanza inaffidabile in generale. La sua efficacia sul soggetto attinto dipende troppo fortemente dal soggetto stesso: su alcuni è praticamente inutile per una serie di considerazioni biochimiche che è lungo spiegare, su altri può essere mortale. Non ne ho mai usato uno, ma da quello che ho visto mi sembra un’arma che ha la tendenza ad essere forte con i deboli e debole con i forti. Il pericolo grave per l’operatore è che si trovi a fare troppo affidamento su qualcosa che si rivela inefficace o che, peggio, si vada oltre le intenzioni comminando un danno superiore a quello che il contesto operativo richiederebbe.
Il suo utilizzo è macchinoso. Bisogna inquadrare il soggetto che deve fare la cortesia di non muoversi troppo, lanciare gli elettrodi sperando che si arpionino e un eventuale raddoppio del colpo, se il primo non è andato a segno, richiede attrezzatura specifica e tempi spesso incompatibili col contesto. Questo sempre che il soggetto non indossi giubbotto e abiti pesanti che limitano drasticamente l’efficacia dello strumento e rischiano di causare un eccesso di fiducia nell’operatore che lo utilizza.
Infine, si tratta di una macchina tecnologicamente complessa, costosa e richiede manutenzioni eccessive in relazione ai vantaggi che offre.
Posso comprendere la sua funzione di “male minore” in contesti esasperati come quello statunitense dove l’uso e l’abuso di armi da fuoco da parte delle forze di polizia ha richiesto un’azione politica di contenimento nei confronti dell’opinione pubblica, ma in Italia dove, almeno per ora, il conflitto a fuoco con la piccola criminalità è ancora un evento abbastanza raro, lo trovo uno strumento con puri fini di propaganda politica.
Conclusioni
Secondo me, andrebbe potenziato l’addestramento al corpo a corpo (veramente scarso nelle nostre forze dell’ordine) e incrementato un uso razionale e professionale del manganello o del tonfa che, utilizzati con perizia, possono inertare il soggetto aggressore con più efficacia e meno rischi di un taser. A questo aggiungerei la possibilità di dotare le forse di polizia di fucili calibro 12 caricati a bean bag, una cartuccia detta “less than lethal” fatta in modo da infliggere un colpo non mortale, incapace di penetrare la pelle, che ha lo scopo di provocare un forte dolore e uno spasmo muscolare immobilizzante. Questo tipo di soluzione richiede meno manutenzione e consente anche di riciclare le armi utilizzando cartucce convenzionali e, nello specifico, la palle slug che hanno interessanti utilizzi operativi.
Tutte queste considerazioni valgono per scontri a breve distanza dove il soggetto da immobilizzare non dispone di armi da fuoco ed è isolato. In contesti diversi, con molti soggetti attivi e armati, a media lunga distanza, il corpo a corpo, il manganello o il taser sono tutti parimenti inadeguati e un contenimento operativo può essere garantito solo con un uso consapevole e professionale delle armi da fuoco in attitudine difensiva. Ritengo, invece, eccessivo e pericoloso in contesti urbani l’adozione di armi in full auto come quelle a disposizione attualmente di polizia e carabinieri e in fase di aggiornamento con nuovo modello.