La ricetta delle pasta con la zucchina fritta, un vero e proprio “must” della cucina siciliana e, più in particolare, palermitana. Per zucchina si intende quella “napoletana“. Si tratta di un piatto semplice e godurioso come ogni pietanza “antica” e popolare che conferisce, anche ad una semplice zucchina, un ruolo importantissimo e un posto d’onore in tavola. A completare il tutto, ci pensa la ricotta salata!
This media is not supported in your browser
VIEW IN TELEGRAM
Lo zafferano siciliano è una produzione preziosa. Questa spezia, chiamata “oro rosso“, si ricava dagli stimmi del fiore di Crocus Sativus. I fiori color indaco, sono avvolti da foglie filiformi che sbucano dal terreno e tra i petali, ci sono i pistilli gialli e tre fili di colore rosso fuoco.
Quei fili sono proprio gli stimmi. Da metà ottobre a metà novembre le piantagioni si tingono di viola e rosso e inizia la raccolta. Le piantagioni di zafferano siciliano si trovano per lo più nell’Ennese. Non si tratta di grandi produzioni, ma sono di elevata qualità.
@newseinfo
Quei fili sono proprio gli stimmi. Da metà ottobre a metà novembre le piantagioni si tingono di viola e rosso e inizia la raccolta. Le piantagioni di zafferano siciliano si trovano per lo più nell’Ennese. Non si tratta di grandi produzioni, ma sono di elevata qualità.
@newseinfo
Un monumento a Caltanissetta si trova al centro della piazza principale ed è la Fontana del Tritone. La Fontana del Tritone è costituita da un gruppo bronzeo raffigurante un tritone che tenta di domare un cavallo marino di fronte a due mostri marini che lo insidiano. Ispirata alla mitologia greca il Tritone è un dio marino con il corpo per metà uomo e per metà pesce, figlio di Poseidone e Anfitrite. La figura mitologica è stata spesso usata nella costruzione di fontane e ninfei, anche il Bernini lo ha collocato nella sua famosa fontana a Roma. Fu scolpita dal nisseno Michele Tripisciano nel 1890 ed inizialmente posta nell'androne di Palazzo del Carmine: la fontana fu creata dall'architetto Gaetano Averna per essere posta nella sua attuale locazione.
La storia millenaria della ceramica di Caltagirone è scritta esattamente nel nome stesso della città, che deriva dal termine arabo Qal'at al Ghiran, la cui traduzione letterale è “Rocca deiVasi”.
@newseinfo
@newseinfo
La Ceramica di Caltagirone: Storia e Curiosità
La Ceramica di Caltagirone è uno dei manufatti artigianali siciliani più famosi. Le sue origini sono molto antiche. Secondo gli esperti, i ceramisti arabi, sin dall’827, a seguito della conquista musulmana dell’isola, si sarebbero stabiliti qui e avrebbero dato un forte impulso all’arte ceramica, con i procedimenti tecnici usati in Oriente.
La storia della ceramica di Caltagirone
Nel Medioevo la ceramica caltagironese ebbe un notevole impulso, grazie alla buona qualità delle argille. Le quartare per contenere il miele, in questo periodo, erano note ovunque. Sebbene dai documenti scritti e, principalmente dai Riveli,si rilevino molti nomi di ceramisti del Cinquecento, sono pochissime le opere superstiti a causa del terremoto del 1693, che sconvolse tutte le città della sicilia orientale.
La Ceramica di Caltagirone è uno dei manufatti artigianali siciliani più famosi. Le sue origini sono molto antiche. Secondo gli esperti, i ceramisti arabi, sin dall’827, a seguito della conquista musulmana dell’isola, si sarebbero stabiliti qui e avrebbero dato un forte impulso all’arte ceramica, con i procedimenti tecnici usati in Oriente.
La storia della ceramica di Caltagirone
Nel Medioevo la ceramica caltagironese ebbe un notevole impulso, grazie alla buona qualità delle argille. Le quartare per contenere il miele, in questo periodo, erano note ovunque. Sebbene dai documenti scritti e, principalmente dai Riveli,si rilevino molti nomi di ceramisti del Cinquecento, sono pochissime le opere superstiti a causa del terremoto del 1693, che sconvolse tutte le città della sicilia orientale.
La più classica delle prime colazioni nel trapanese vede come protagonista la graffa con la ricotta. Si tratta della versione locale del krapfen, dall’impasto però più soffice e gradevole, il quale viene spaccato per l’inserimento di una farcitura alla ricotta. Squisitezza imperdibile.
Buona giornata 🥐☕️☀️
Buona giornata 🥐☕️☀️
This media is not supported in your browser
VIEW IN TELEGRAM
La fontana di Diana è una fontana monumentale opera di Giulio Moschetti del 1907 sita in Piazza Archimede nell'Ortigia, Siracusa. La fontana è rivolta a sud e mette in evidenza la figura di Diana con arco e cane, gli attributi della dea della caccia, protettrice di Ortigia in epoca greca. Ai suoi piedi c'è Aretusa che si allunga mentre è in atto la trasformazione in fonte. A lato Alfeo stupefatto per ciò che sta avvenendo alla sua amata. In secondo ordine, all'interno della vasca troviamo quattro Tritoni che accalcano due cavalli marini e due pistrici impennati sulle onde. La vasca fine presenta alcuni mascheroni e stemmi ricalcando uno stile classico delle forme. @newseinfo
Etna è il nome di una dea della mitologia greca. Era considerata figlia di Urano e Gaia.
Il drago Tifone, si supponeva, vivesse nelle viscere del vulcano omonimo e ne causava le distruttive eruzioni.
Il vulcano era conosciuto in età romana come Aetna, il nome deriva dalla parola greca aitho (bruciare) o ancor prima dalla parola fenicia attano.
Gli arabi chiamavano la montagna Gibel Utlamat (la montagna del fuoco); questo nome fu più tardi storpiato in Mons Gibel e successivamente, nel Medio Evo, in Mongibello, che deriva dall’italiano “monte” e dall’arabo “djebel” che ha il medesimo significato e che è attualmente il nome della montagna, non del vulcano.
Le eruzioni regolari della montagna, spesso drammatiche, hanno reso l’Etna un argomento di grande interesse per la mitologia classica, la quale ha cercato di spiegare i terremoti e gli smottamenti tramite l’invenzione di dei e giganti.
Eolo, il re dei venti, si diceva che avesse imprigionato i venti sotto le caverne dell’Etna.
Oltre alle gesta degli dei, la mitologia legata alla Sicilia è ricca di leggende di amore, come quella di Aci e Galatea. Aci era un pastorello che viveva alle pendici dell’Etna. Galatea, che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo, lo amava. Polifemo, offeso per il rifiuto della ragazza, uccise il suo rivale nella speranza di conquistare la sua amata. Ma Galatea continuò ad amare Aci.
Così Nereide, grazie all’aiuto degli dei, trasformò il corpo morto di Aci in sorgenti d’acqua dolce che scivolano lungo i pendii dell’Etna.
Non lontano dalla costa, vicino l’attuale Capo Molini, esiste una piccola sorgente chiamata dagli abitanti del luogo “il sangue di Aci” per il suo colore rossastro.
Sempre nei pressi di Capo Molini esisteva un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello, Aci.
Nell’undicesimo secolo dopo Cristo un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti che fondarono altri centri che, vennero chiamati Aci, in ricordo della loro città d’origine.
In particolare, molte storie sono riferite alla città di Catania e dintorni, quali la leggenda de “Il cavallo senza testa” o le storie legate al terremoto del 1693.
A questo evento realmente accaduto sono legate due leggende catanesi: quella di “Don Arcaloro” e quella del vescovo Carafa.
La prima narra di una fattucchiera che aveva aveva sognato Sant’Agata mentre supplicava il Signore di salvare la sua città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi rifiutò la grazia. Il Barone Don Arcaloro si rifugiò in aperta campagna, dove attese che la profezia della strega si verificasse.
La seconda leggenda tratta del vescovo di Catania Francesco Carafa, capo della diocesi dal 1687 al 1692.
La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua città il terremoto. Ma nel 1692 egli morì e l’anno dopo Catania fu distrutta.
L’iscrizione posta sul suo sepolcro ricorda proprio tale evento ed il ruolo incisivo delle sue preghiere.
Il drago Tifone, si supponeva, vivesse nelle viscere del vulcano omonimo e ne causava le distruttive eruzioni.
Il vulcano era conosciuto in età romana come Aetna, il nome deriva dalla parola greca aitho (bruciare) o ancor prima dalla parola fenicia attano.
Gli arabi chiamavano la montagna Gibel Utlamat (la montagna del fuoco); questo nome fu più tardi storpiato in Mons Gibel e successivamente, nel Medio Evo, in Mongibello, che deriva dall’italiano “monte” e dall’arabo “djebel” che ha il medesimo significato e che è attualmente il nome della montagna, non del vulcano.
Le eruzioni regolari della montagna, spesso drammatiche, hanno reso l’Etna un argomento di grande interesse per la mitologia classica, la quale ha cercato di spiegare i terremoti e gli smottamenti tramite l’invenzione di dei e giganti.
Eolo, il re dei venti, si diceva che avesse imprigionato i venti sotto le caverne dell’Etna.
Oltre alle gesta degli dei, la mitologia legata alla Sicilia è ricca di leggende di amore, come quella di Aci e Galatea. Aci era un pastorello che viveva alle pendici dell’Etna. Galatea, che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo, lo amava. Polifemo, offeso per il rifiuto della ragazza, uccise il suo rivale nella speranza di conquistare la sua amata. Ma Galatea continuò ad amare Aci.
Così Nereide, grazie all’aiuto degli dei, trasformò il corpo morto di Aci in sorgenti d’acqua dolce che scivolano lungo i pendii dell’Etna.
Non lontano dalla costa, vicino l’attuale Capo Molini, esiste una piccola sorgente chiamata dagli abitanti del luogo “il sangue di Aci” per il suo colore rossastro.
Sempre nei pressi di Capo Molini esisteva un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello, Aci.
Nell’undicesimo secolo dopo Cristo un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti che fondarono altri centri che, vennero chiamati Aci, in ricordo della loro città d’origine.
In particolare, molte storie sono riferite alla città di Catania e dintorni, quali la leggenda de “Il cavallo senza testa” o le storie legate al terremoto del 1693.
A questo evento realmente accaduto sono legate due leggende catanesi: quella di “Don Arcaloro” e quella del vescovo Carafa.
La prima narra di una fattucchiera che aveva aveva sognato Sant’Agata mentre supplicava il Signore di salvare la sua città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi rifiutò la grazia. Il Barone Don Arcaloro si rifugiò in aperta campagna, dove attese che la profezia della strega si verificasse.
La seconda leggenda tratta del vescovo di Catania Francesco Carafa, capo della diocesi dal 1687 al 1692.
La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua città il terremoto. Ma nel 1692 egli morì e l’anno dopo Catania fu distrutta.
L’iscrizione posta sul suo sepolcro ricorda proprio tale evento ed il ruolo incisivo delle sue preghiere.
Senza alcun dubbio una delle festività più sentite dalla città di Messina è il Ferragosto, che nella città dello Stretto viene festeggiato con la processione della Vara e la “Passeggiata dei Giganti” Mata e Grifone.
Oggi in attesa del prossimo ferragosto vi parleremo di Mata e Grifone, un’autentica storia d’amore tra leggenda e tradizioni popolari.
Tra le varie versioni della leggenda dei giganti Mata e Grifone, la più conosciuta è quella che li considera come fondatori della città di Messina e progenitori della sua popolazione.
Mata, versione dialettale del nome Marta, era una procace ragazza messinese. Grifone, il cui nome originario era Hassan Ibn-Hammar, era un gigante saraceno di fede musulmana a capo di un esercito dedito alla pirateria e alle scorribande violente. Intorno al 964 d.c. , l’esercito guidato da Grifone conquistò la città dello Stretto attraverso la cittadina tirrenica oggi conosciuta come Rometta. Durante una delle sue incursioni, vide Mata e se ne innamorò follemente tanto da andarla a chiedere in sposa al padre, Cosimo II di Castellaccio, ma sia il padre che la stesa Mata rifiutarono la proposta del gigante saraceno.
Nonostante fosse sottoposta a varie torture Mata si ostinò a rifiutare la proposta di Grifone e così si rese conto che l’unico modo per conquistare il suo cuore era pentirsi e cambiare vita. Abbandonò quindi i panni da criminale e dopo essersi convertito al Cristianesimo e fattosi battezzare col nome di Grifo (poi Grifone a causa della sua mole), si dedicò alla coltivazione della terra e alle opere di beneficenza.
Mata, colpita da questo eclatante gesto d’amore, iniziò a guardarlo con occhi diversi fino ad innamorarsene. La loro unione fu benedetta da numerosi figli, tanto che la tradizione popolare messinese identifica, appunto, il Gigante e la Gigantessa come i progenitori e fondatori della città dello Stretto.
Intorno al 1550, il Senato messinese incaricò il fiorentino Martino Montanini, allievo del Montorsoli, di costruire due statue dedicate a Mata e Grifone, che vennero poi rifatte e restaurate più volte nel corso dei secoli.
Qualche giorno prima di ferragosto, ogni anno, i due giganti a cavallo alti circa otto metri, seguiti da un corteo in costume e dallo squillo di trombe e al suono di tamburi, vengono portati in processione per le vie della città fino a raggiungere la piazza adiacente il Municipio, dove sostano tutto il restante periodo estivo.
Oggi in attesa del prossimo ferragosto vi parleremo di Mata e Grifone, un’autentica storia d’amore tra leggenda e tradizioni popolari.
Tra le varie versioni della leggenda dei giganti Mata e Grifone, la più conosciuta è quella che li considera come fondatori della città di Messina e progenitori della sua popolazione.
Mata, versione dialettale del nome Marta, era una procace ragazza messinese. Grifone, il cui nome originario era Hassan Ibn-Hammar, era un gigante saraceno di fede musulmana a capo di un esercito dedito alla pirateria e alle scorribande violente. Intorno al 964 d.c. , l’esercito guidato da Grifone conquistò la città dello Stretto attraverso la cittadina tirrenica oggi conosciuta come Rometta. Durante una delle sue incursioni, vide Mata e se ne innamorò follemente tanto da andarla a chiedere in sposa al padre, Cosimo II di Castellaccio, ma sia il padre che la stesa Mata rifiutarono la proposta del gigante saraceno.
Nonostante fosse sottoposta a varie torture Mata si ostinò a rifiutare la proposta di Grifone e così si rese conto che l’unico modo per conquistare il suo cuore era pentirsi e cambiare vita. Abbandonò quindi i panni da criminale e dopo essersi convertito al Cristianesimo e fattosi battezzare col nome di Grifo (poi Grifone a causa della sua mole), si dedicò alla coltivazione della terra e alle opere di beneficenza.
Mata, colpita da questo eclatante gesto d’amore, iniziò a guardarlo con occhi diversi fino ad innamorarsene. La loro unione fu benedetta da numerosi figli, tanto che la tradizione popolare messinese identifica, appunto, il Gigante e la Gigantessa come i progenitori e fondatori della città dello Stretto.
Intorno al 1550, il Senato messinese incaricò il fiorentino Martino Montanini, allievo del Montorsoli, di costruire due statue dedicate a Mata e Grifone, che vennero poi rifatte e restaurate più volte nel corso dei secoli.
Qualche giorno prima di ferragosto, ogni anno, i due giganti a cavallo alti circa otto metri, seguiti da un corteo in costume e dallo squillo di trombe e al suono di tamburi, vengono portati in processione per le vie della città fino a raggiungere la piazza adiacente il Municipio, dove sostano tutto il restante periodo estivo.
This media is not supported in your browser
VIEW IN TELEGRAM
"Unn’è santu chi sura". Traduzione:“Non è Santo che suda”. Questo modo di dire siciliano fa riferimento al fatto che le statue dei santi, che sono di marmo, notoriamente non sudano.
L’espressione si utilizza per indicare che non si riuscirà a ottenere qualcosa ed è strettamente connessa a un celebre proverbio: “È inutili ca ntrizzi e ffai cannola, u santu è di marmuru e nun sura”. Il proverbio ha come protagoniste una mamma e una figlia. La mamma spiega alla figlia che è inutile che fa trecce (intrizzi) e boccoli (cannola): l’uomo del quale è innamorata è un santo che non suda. Insomma, nessuna speranza di un lieto fine!
L’espressione si utilizza per indicare che non si riuscirà a ottenere qualcosa ed è strettamente connessa a un celebre proverbio: “È inutili ca ntrizzi e ffai cannola, u santu è di marmuru e nun sura”. Il proverbio ha come protagoniste una mamma e una figlia. La mamma spiega alla figlia che è inutile che fa trecce (intrizzi) e boccoli (cannola): l’uomo del quale è innamorata è un santo che non suda. Insomma, nessuna speranza di un lieto fine!