Buddace è il nome dialettale di un pesce, che si pesca nei nostri mari. È chiamato così, sulle sponde dello Stretto, ma in italiano è noto come ‘Sciarrano’ ( Serranus scriba, Linnaeus 1758, dal latino scriba ‘scrivano’, per le linee arancioni ne e blu sul dorso e sul capo, che sembrano una scrittura). Non è pregiato, è in genere piccolo, spinoso, buono solo per le zuppe.
Il termine Buddaci (dall’arabo muddag ‘tipo di pesce di mare’, cfr. Pellegrini 1972), o buddaciaru, come dicono soprattutto in alcune località del catanese, è utilizzato nelle località limitrofe o in altre città siciliane, per indicare, in senso dispregiativo, i messinesi, come gente che si vanta, senza fare seguire i fatti alle parole, e anche inetta e credulona. Questa nciuria – che in siciliano indica, in generale, un ‘soprannome’, che si dava sia a singoli individui, che a un’intera comunità cittadina – è nata probabilmente nel gergo dei pescatori, forse reggini,catanesi o delle zone di mare della provincia messinese.
@sicilianewseinfo
Il termine Buddaci (dall’arabo muddag ‘tipo di pesce di mare’, cfr. Pellegrini 1972), o buddaciaru, come dicono soprattutto in alcune località del catanese, è utilizzato nelle località limitrofe o in altre città siciliane, per indicare, in senso dispregiativo, i messinesi, come gente che si vanta, senza fare seguire i fatti alle parole, e anche inetta e credulona. Questa nciuria – che in siciliano indica, in generale, un ‘soprannome’, che si dava sia a singoli individui, che a un’intera comunità cittadina – è nata probabilmente nel gergo dei pescatori, forse reggini,catanesi o delle zone di mare della provincia messinese.
@sicilianewseinfo
I pescatori sanno che u buddaci si cattura con estrema facilità, abboccando a tutti i tipi di esca, per cui è poco furbo (‘u pisci babbu’ dicono i catanesi), e, siccome ha anche la bocca grande e mangia tutto quello che capita, hanno utilizzato la metafora per indicare sia gente ‘poco furba’, che ‘abbocca’ a qualunque diceria, sia che è ‘di bocca larga’, come se tutti gli abitanti di Messina avessero questi difetti.
Ma non siamo gli unici ad avere un soprannome ingiurioso. Il Pitrè, nelle sue novelle e racconti popolari siciliani (1875) riferisce, fra l’altro: Pedi arsi sù li Catanisi … Lazzaruna sù li Missinisi, Spati e Cutedda li Palermitani: i catanesi pedi arsi’, perché camminavano sulla pietra lavica, i messinesi lazzaruna “furbi, birbanti”, i palermitani Spati e Cutedda, perché prepotenti e litigiosi. Anche noi chiamiamo i calabresi ‘testa dura’: ‘hai a testa dura comu u calabbrisi’; i Palermitani vengono soprannominati lagnusi, nel senso di ‘indolenti’, ‘scansafatiche’; i Catanesi, spacchiusi ‘spacconi, arroganti” e fausi, appellativo quest’ultimo, che dicono sia nato dalle malefatte di un noto falsario, Paolo Ciulla, di Caltagirone ( fine Ottocento – inizi Novecento), che falsificò migliaia di banconote, distribuendole infine anche ai poveri.
A favorire la nascita o il mantenimento di queste nciurie ( ad es. nella tifoseria calcistica) è stata in genere l’ostilità fra città vicine, in origine per motivi commerciali, ripicche o semplicemente come affermazione della superiorità di una comunità cittadina rispetto ad un’altra.
Ma non siamo gli unici ad avere un soprannome ingiurioso. Il Pitrè, nelle sue novelle e racconti popolari siciliani (1875) riferisce, fra l’altro: Pedi arsi sù li Catanisi … Lazzaruna sù li Missinisi, Spati e Cutedda li Palermitani: i catanesi pedi arsi’, perché camminavano sulla pietra lavica, i messinesi lazzaruna “furbi, birbanti”, i palermitani Spati e Cutedda, perché prepotenti e litigiosi. Anche noi chiamiamo i calabresi ‘testa dura’: ‘hai a testa dura comu u calabbrisi’; i Palermitani vengono soprannominati lagnusi, nel senso di ‘indolenti’, ‘scansafatiche’; i Catanesi, spacchiusi ‘spacconi, arroganti” e fausi, appellativo quest’ultimo, che dicono sia nato dalle malefatte di un noto falsario, Paolo Ciulla, di Caltagirone ( fine Ottocento – inizi Novecento), che falsificò migliaia di banconote, distribuendole infine anche ai poveri.
A favorire la nascita o il mantenimento di queste nciurie ( ad es. nella tifoseria calcistica) è stata in genere l’ostilità fra città vicine, in origine per motivi commerciali, ripicche o semplicemente come affermazione della superiorità di una comunità cittadina rispetto ad un’altra.
Sulla facciata di Palazzo Zanca ci sono delle decorazioni che raffigurano due pesci dalla grande bocca, uno di fronte all’altro, identificati con i pisci buddaci. L’architetto Nino Principato ha spiegato, con un aneddoto, il motivo di queste icone: pare che l’ingegnere Antonio Zanca, cui era stato affidato il progetto per la costruzione del Municipio (iniziata il 28 dicembre 1914) – che, prima del terremoto del 1908, sorgeva nella storica Palazzata-, per molti anni non ricevette alcun compenso e, per sfregio ai messinesi, fece fare delle decorazioni con i pesci buddaci
Sicuramente all’inizio del Novecento questa metafora era già diffusa, come testimonia un giornale edito a Messina ( Tipografia G. Tripodo ), che ebbe vita breve (dal 31/12/1924 al 25/01/1925), a causa delle sue idee antifasciste:“U buddacci. Giornale scopatore di vitella paesana, politicamente asciutto, aromatico”, che si proponeva di denunciare pubblicamente ‘clientele e piaghe’ della nostra città. Ma perché fu scelto proprio questo pesce per definire i messinesi? Anche altri pesci, presenti nelle nostre coste, hanno la bocca larga: il nasello, lo scorfano, la ricciola, la murena, la cernia. Forse per rendere l’insulto più forte, in quanto u buddace è anche di scarsa qualità e, soprattutto, poco furbo.
Ma negli scritti del Pitrè, quindi di fine ‘800, i messinesi erano definiti ‘furbi, malandrini’(lazzaruna). E li si considerava anche ‘intelligenti’ come compare in un verso di una poesia popolare di Anonimo, che riporto solo in parte:
Sicuramente all’inizio del Novecento questa metafora era già diffusa, come testimonia un giornale edito a Messina ( Tipografia G. Tripodo ), che ebbe vita breve (dal 31/12/1924 al 25/01/1925), a causa delle sue idee antifasciste:“U buddacci. Giornale scopatore di vitella paesana, politicamente asciutto, aromatico”, che si proponeva di denunciare pubblicamente ‘clientele e piaghe’ della nostra città. Ma perché fu scelto proprio questo pesce per definire i messinesi? Anche altri pesci, presenti nelle nostre coste, hanno la bocca larga: il nasello, lo scorfano, la ricciola, la murena, la cernia. Forse per rendere l’insulto più forte, in quanto u buddace è anche di scarsa qualità e, soprattutto, poco furbo.
Ma negli scritti del Pitrè, quindi di fine ‘800, i messinesi erano definiti ‘furbi, malandrini’(lazzaruna). E li si considerava anche ‘intelligenti’ come compare in un verso di una poesia popolare di Anonimo, che riporto solo in parte:
U missinisi e u buddaci
n omu ò munnu, tantu bommagaru
chi nominatu fu lu “bbuccazzaru”!
parra,‘nfirucìa e mmustra i denti
ma poi, ‘n sustanza, non cummina nenti.
Sìculu di razza o pì pritisi,
u titulu v’u dici, è u “missinisi”,
stimatu pù so’ sali ‘ntra la zzucca,
ma criticatu p’a lagghizza i bucca.
Ma, a definizioni cchiù veraci
fu quannu u defineru u “buddhaci”! ( cfr. L. Milanesi 2015)
Il messinese era “stimatu pù so’ sali ‘ntra la zzucca”, quindi tutt’altro che stupido e inetto, come vorrebbe far credere chi ci chiama Buddaci.
Oggi comunque si è attenuato il valore spregiativo del termine e dalle altre città lo si sente dire sempre di meno. Il messinese lo considera ormai parte del proprio patrimonio linguistico, usandolo talora per autodefinirsi benevolmente o per criticare qualche suo concittadino: ‘Nenti, chiddu è un veru buddaci!’,
La lingua è come un organismo vivente, evolve continuamente nella forma e nei significati. A giudicare dai vari cambiamenti, nel tempo, degli epiteti dati ai messinesi e all’uso più recente di quello attuale, in futuro questo sarà usato sempre più con un valore umoristico e scherzoso, che dispregiativo, e un giorno forse nessuno più saprà che buddace era solo un piccolo pesce, da cui poi è nata un’“ingiuria”.
n omu ò munnu, tantu bommagaru
chi nominatu fu lu “bbuccazzaru”!
parra,‘nfirucìa e mmustra i denti
ma poi, ‘n sustanza, non cummina nenti.
Sìculu di razza o pì pritisi,
u titulu v’u dici, è u “missinisi”,
stimatu pù so’ sali ‘ntra la zzucca,
ma criticatu p’a lagghizza i bucca.
Ma, a definizioni cchiù veraci
fu quannu u defineru u “buddhaci”! ( cfr. L. Milanesi 2015)
Il messinese era “stimatu pù so’ sali ‘ntra la zzucca”, quindi tutt’altro che stupido e inetto, come vorrebbe far credere chi ci chiama Buddaci.
Oggi comunque si è attenuato il valore spregiativo del termine e dalle altre città lo si sente dire sempre di meno. Il messinese lo considera ormai parte del proprio patrimonio linguistico, usandolo talora per autodefinirsi benevolmente o per criticare qualche suo concittadino: ‘Nenti, chiddu è un veru buddaci!’,
La lingua è come un organismo vivente, evolve continuamente nella forma e nei significati. A giudicare dai vari cambiamenti, nel tempo, degli epiteti dati ai messinesi e all’uso più recente di quello attuale, in futuro questo sarà usato sempre più con un valore umoristico e scherzoso, che dispregiativo, e un giorno forse nessuno più saprà che buddace era solo un piccolo pesce, da cui poi è nata un’“ingiuria”.
This media is not supported in your browser
VIEW IN TELEGRAM
Trovi qui una selezione dei migliori gruppi, canali e bot Siciliani.
Http://t.me/siciliagruppi
Http://t.me/siciliagruppi
Telegram
Sicilia gruppi e canali Siciliani
I migliori gruppi, canali e bot della Sicilia.
Informazioni, Eventi, Cultura, Tradizioni, Sagre, Nuovi amici, un gruppo regionale e dieci gruppi provinciali. By @chatitaly
Informazioni, Eventi, Cultura, Tradizioni, Sagre, Nuovi amici, un gruppo regionale e dieci gruppi provinciali. By @chatitaly
Messina. La pesca del Pesce Spada: tradizione, leggenda e ricette
La pesca al pesce spada è una di quelle eterne lotte tra uomo e natura che, in un sublime scenario quale è lo Stretto di Messina, ha avuto modo di rafforzarsi e crescere in un vorticoso intreccio tra storia, leggenda e mistero.
Andiamo a indagare sulle origini di questa antica “caccia” scandagliandone aneddoti, tecniche e curiosità.
@sicilianewseinfo
La pesca al pesce spada è una di quelle eterne lotte tra uomo e natura che, in un sublime scenario quale è lo Stretto di Messina, ha avuto modo di rafforzarsi e crescere in un vorticoso intreccio tra storia, leggenda e mistero.
Andiamo a indagare sulle origini di questa antica “caccia” scandagliandone aneddoti, tecniche e curiosità.
@sicilianewseinfo
DOVE SI PESCA IL PESCE SPADA
Tutto ha avuto inizio una domenica mattina, all’alba. Mentre il sole faceva capolino oltre il bianco e rosso Pilone, i primi raggi hanno iniziato a colorare Torre Faro e Ganzirri, due pittoreschi borghi marinari che si stagliano nella punta nord orientale del Comune di Messina.
La storia vuole che, fin dall’antichità, queste due lande di terra che si affacciano direttamente sul mare e sulla dirimpettaia Calabria vivano principalmente di pesca. I fondali dello Stretto pullulano di specie mediterranee come tonni, auguglie, remore, costardelle… ma, a Messina è noto a tutti, il vero Re degli abissi è il Pesce Spada.
Tramandata di generazione in generazione, la pesca al Pesce Spada ha origini talmente remote che quasi è difficile slegarle dalle leggende che hanno fatto della Sicilia la gioiosa terra del mito. Scilla, Cariddi, Colapesce, Enea, erano solo alcune delle storie che, a bordo della Feluca dei Mancuso, ascoltavo raccontare quella domenica mattina da una famiglia di pescatori che, per generazioni, era cresciuta tra le acque dello Stretto.
Tra onde e odore di salsedine, il signor Raffaele mi ha spiegato come l’arte della pesca del pescespada sia rimasta immutata per millenni. “Sono cambiate le imbarcazioni, è cambiato il legno, è cambiato l’albero maestro – diceva – ma la tecnica no: quella è sempre la stessa”.
@sicilianewseinfo
Tutto ha avuto inizio una domenica mattina, all’alba. Mentre il sole faceva capolino oltre il bianco e rosso Pilone, i primi raggi hanno iniziato a colorare Torre Faro e Ganzirri, due pittoreschi borghi marinari che si stagliano nella punta nord orientale del Comune di Messina.
La storia vuole che, fin dall’antichità, queste due lande di terra che si affacciano direttamente sul mare e sulla dirimpettaia Calabria vivano principalmente di pesca. I fondali dello Stretto pullulano di specie mediterranee come tonni, auguglie, remore, costardelle… ma, a Messina è noto a tutti, il vero Re degli abissi è il Pesce Spada.
Tramandata di generazione in generazione, la pesca al Pesce Spada ha origini talmente remote che quasi è difficile slegarle dalle leggende che hanno fatto della Sicilia la gioiosa terra del mito. Scilla, Cariddi, Colapesce, Enea, erano solo alcune delle storie che, a bordo della Feluca dei Mancuso, ascoltavo raccontare quella domenica mattina da una famiglia di pescatori che, per generazioni, era cresciuta tra le acque dello Stretto.
Tra onde e odore di salsedine, il signor Raffaele mi ha spiegato come l’arte della pesca del pescespada sia rimasta immutata per millenni. “Sono cambiate le imbarcazioni, è cambiato il legno, è cambiato l’albero maestro – diceva – ma la tecnica no: quella è sempre la stessa”.
@sicilianewseinfo
CHE COS’E LA FELUCA
La Feluca è la tipica imbarcazione su cui avviene la caccia al pescespada ed è caratterizzata da un alto albero maestro, la cosiddetta antenna, e da una lunga passerella, o ponte, dove avviene l’arpionaggio. “L’Antenna è il vero centro di comando è il posto in cui si trovano il timone, le marce, i pescatori addetti alle manovre e, soprattutto, all’avvistamento dell’avversario marino”
Il Pesce Spada è un esemplare che vive solitamente sui fondali ma, molto spesso, sale in superficie per cercare piccole prede. “E’ in quel momento che diviene vulnerabile e noi lo possiamo cacciare con un procedimento preciso, temporale e estremamente rigoroso”.
Quando dall’alto dell’Antenna viene lanciato l’urlo di avvistamento, l’intera macchina organizzativa della Feluca si mette in moto: quel grido rappresenta l’inizio della lotta, l’inizio del duello, l’inizio della caccia. L’animale viene seguito fin quando il pescatore situato sulla passerella, con in mano l’arpione, non si trova nelle condizioni ideali di lancio.
Quella domenica mattina, a bordo della Feluca dei Mancuso, ho avuto la fortuna di assistere all’intera scena. Francesco, ritto sulla passerella, ha arpionato il pescespada iniziando poi a correre verso il centro del peschereccio. Il resto dell’equipaggio, quasi seguisse un copione ben stabilito, ha allora tirato con vigore la corda fino a portare l’animale accanto alla barca. Dopo avergli legato la coda ed immobilizzato il busto, due uomini dell’equipaggio hanno infine issato il pesce che, nonostante fosse allo stremo, ha lottato fino alla fine, con animo e corpo, per la sua sopravvivenza.
“Per evitare che l’animale attacchi e ferisca con la spada – mi ha poi spiegato Raffaele – i pescatori pongono sui suoi occhi un telo nero: serve a nascondere la nostra figura, la nostra debolezza”.
La Feluca è la tipica imbarcazione su cui avviene la caccia al pescespada ed è caratterizzata da un alto albero maestro, la cosiddetta antenna, e da una lunga passerella, o ponte, dove avviene l’arpionaggio. “L’Antenna è il vero centro di comando è il posto in cui si trovano il timone, le marce, i pescatori addetti alle manovre e, soprattutto, all’avvistamento dell’avversario marino”
Il Pesce Spada è un esemplare che vive solitamente sui fondali ma, molto spesso, sale in superficie per cercare piccole prede. “E’ in quel momento che diviene vulnerabile e noi lo possiamo cacciare con un procedimento preciso, temporale e estremamente rigoroso”.
Quando dall’alto dell’Antenna viene lanciato l’urlo di avvistamento, l’intera macchina organizzativa della Feluca si mette in moto: quel grido rappresenta l’inizio della lotta, l’inizio del duello, l’inizio della caccia. L’animale viene seguito fin quando il pescatore situato sulla passerella, con in mano l’arpione, non si trova nelle condizioni ideali di lancio.
Quella domenica mattina, a bordo della Feluca dei Mancuso, ho avuto la fortuna di assistere all’intera scena. Francesco, ritto sulla passerella, ha arpionato il pescespada iniziando poi a correre verso il centro del peschereccio. Il resto dell’equipaggio, quasi seguisse un copione ben stabilito, ha allora tirato con vigore la corda fino a portare l’animale accanto alla barca. Dopo avergli legato la coda ed immobilizzato il busto, due uomini dell’equipaggio hanno infine issato il pesce che, nonostante fosse allo stremo, ha lottato fino alla fine, con animo e corpo, per la sua sopravvivenza.
“Per evitare che l’animale attacchi e ferisca con la spada – mi ha poi spiegato Raffaele – i pescatori pongono sui suoi occhi un telo nero: serve a nascondere la nostra figura, la nostra debolezza”.
L’atto finale di quella domenica di caccia è stata la cardatura, un segno a croce la cui origine è antichissima, quasi sconosciuta. “La cardatura è tipicamente legata ai pescatori di Ganzirri – mi spiegava Raffaele – anche se oggi essa viene imitata per ingannare chi poi compra il pesce. Le persone vedono la croce e pensano che il pesce spada sia stato catturato tra le acque dello Stretto, quando così non è”. “A che serve?”, gli ho allora domandato. “E’ il nostro modo di ringraziare e onorare un Re che ha lottato fino alla fine”.
Di codici non detti e regole marinaie da onorare fino alla morte, la pesca al Pesce Spada e i marinai di Torre Faro e Ganzirri ne hanno tantissime. Tra queste ve ne è una che riguarda la spartizione del mare e la suddivisione delle acque in cui cacciare. “In tutto ci sono undici feluche che pattugliano lo Stretto nella stagione della pesca al pesce spada: due sono calabre e nove sono messinesi. Undici feluche per undici porzioni di mare in cui è stato idealmente suddiviso lo Stretto. Ci si alterna, di modo che ognuno abbia sempre ben chiaro fin dove spingersi con la caccia”. “E cosa avviene se una Feluca avvista un pesce spada e poi, inseguendolo, va oltre il confine?”. “Continua a cacciare, ma se l’animale viene preso allora è costretta a spartirlo con l’altra Feluca”.
Di codici non detti e regole marinaie da onorare fino alla morte, la pesca al Pesce Spada e i marinai di Torre Faro e Ganzirri ne hanno tantissime. Tra queste ve ne è una che riguarda la spartizione del mare e la suddivisione delle acque in cui cacciare. “In tutto ci sono undici feluche che pattugliano lo Stretto nella stagione della pesca al pesce spada: due sono calabre e nove sono messinesi. Undici feluche per undici porzioni di mare in cui è stato idealmente suddiviso lo Stretto. Ci si alterna, di modo che ognuno abbia sempre ben chiaro fin dove spingersi con la caccia”. “E cosa avviene se una Feluca avvista un pesce spada e poi, inseguendolo, va oltre il confine?”. “Continua a cacciare, ma se l’animale viene preso allora è costretta a spartirlo con l’altra Feluca”.
LA VENDITA DEL PESCE SPADA
Il pesce spada catturato sulle Feluche viene poi rivenduto ai rigattieri, che a loro volta lo rivendono a ristoranti, mercati e pubblico. La carne del Pesce Spada è talmente tenera e prelibata che, da sempre, rappresenta uno degli ingredienti più amati della cucina siciliana.
Scesa dalla Feluca ed appoggiata su una ringhiera dei laghi di Ganzirri
Il pesce spada catturato sulle Feluche viene poi rivenduto ai rigattieri, che a loro volta lo rivendono a ristoranti, mercati e pubblico. La carne del Pesce Spada è talmente tenera e prelibata che, da sempre, rappresenta uno degli ingredienti più amati della cucina siciliana.
Scesa dalla Feluca ed appoggiata su una ringhiera dei laghi di Ganzirri